La riforma prevede maggiori obblighi per gli enti del terzo settore che hanno più entrate e dipendenti. Ma la sfida rimane quella di spostare il focus dall’adempimento all’opportunità utilizzando strumenti comunicativi strategici
Il sovraccarico di norme che negli ultimi tempi hanno introdotto i cosiddetti “obblighi di trasparenza” per il terzo settore è frutto di una serie di dinamiche e fattori che non sono stati ancora sufficientemente discussi e rielaborati dal terzo settore stesso. Il nucleo di tali norme è contenuto in diverse disposizioni del codice del terzo settore (decreto legislativo 117/2017) e la legge ha voluto introdurre un criterio di “proporzionalità di carico” di trasparenza: più c’è giro di denaro (e di dipendenti…), più obblighi ci devono essere. Accanto a queste norme ne sono state introdotte altre in modo piuttosto scoordinato (ricordiamo il dibattito sullo “spazzacorrotti” o la legge annuale per il mercato e la concorrenza che prevede l’obbligo di pubblicazione delle informazioni sui contributi pubblici ricevuti superiori ad una certa soglia…).
Il risultato è quello di aver alimentato una certa confusione legislativa e sul piano socio-culturale, generando una sensazione di sospetto indistinto sulle attività del terzo settore: aprite le finestre perché nascondete troppe cose quantomeno discutibili. Tale approccio è figlio di due fattori convergenti: da una parte una totale assenza fino a pochi anni fa di criteri di trasparenza vincolanti e di un credito di fiducia forse eccessivo maturato nei confronti del terzo settore; dall’altra una deriva di sospetto e discredito figlia del noto mix di antipolitica, antistatalismo, credulità collettiva, rancore etc. che così tanto incide sull’opinione pubblica anche tramite i nuovi media che ne amplificano gli effetti. Non è questa la sede per analizzare in profondità tali meccanismi e quanto la normativa faccia per contrastarli o prevenirli (per contrastare forse qualcosa, per prevenire sicuramente niente), ma vorremmo dare un contributo di idee e di approccio al terzo settore per riprendere in mano il tema e trasformarlo in un’opportunità tramite un pensiero che possa generare strategie efficaci di comunicazione.
L’espressione “obbligo di trasparenza” già di per sé introduce una dissonanza nei confronti del terzo settore: obbligare alla trasparenza significa aprire forzatamente finestre tenute colpevolmente e sospettosamente chiuse da un settore che fa dell’utilità e della responsabilità sociale nei confronti delle comunità di riferimento une delle sue ragioni di esistere. Subire la trasparenza significa già partire con uno svantaggio. Per questo serve una reazione ragionata e condivisa che già ha visto le prime mosse con il dibattito promosso dal Forum nazionale del Terzo Settore che ha portato all’introduzione del Codice di qualità e autocontrollo.
Prendere in mano il dibattito, fornire strumenti di lavoro accessibili ed efficaci, farlo in modo da favorirne la comunicazione, spostare il focus dall’adempimento all’opportunità è ciò che il terzo settore deve fare per non trovarsi in una posizione di permanente svantaggio. Il giurista Luca Gori della Scuola Sant’Anna di Pisa ha sottolineato in una intervista pubblicata da Vita: “È il terzo settore stesso che deve animare un dibattito su quali sono i dati ritenuti effettivamente significativi e ‘legittimanti’ per la loro azione nelle comunità e quale sia il modo più efficace di comunicarli in forme trasparenti, offrendo spiegazioni e letture dei dati stessi. E su quali dati debbano essere resi trasparenti per obbligo normativo e quali facoltativamente, premiando magari chi sceglie di ampliare l'area trasparenza. Il rischio, diversamente, è che gli obblighi di trasparenza siano concepiti solo come costosi adempimenti semplicemente formali. O addirittura che siano ritenuti controproducenti, poiché finiscono per attirare tutta l'attenzione solo su certi dati più ‘ghiotti’ per certa stampa o pubblica opinione, alimentando la logica del sospetto”.
Il concetto di fondo è che serve una chiamata alla re-azione massiccia da parte del terzo settore per creare una infrastrutturazione complessiva e delle prassi condivise che rappresentino la base di accontability su cui inserire in modo agile tutti gli obblighi e gli adempimenti. E non da ultimi anche quelli relativi alla nuova disciplina dei controlli. Il bilancio sociale è uno strumento potentissimo e le nuove linee guida del Ministero sono un’opportunità per una narrazione comune del terzo settore orientata anche a quello che sarà il lavoro (ancora più fecondo in questo senso) sull’impatto sociale. Sono strumenti potentissimi per generare una rendicontazione continua e di qualità sull’azione del terzo settore e i suoi impatti sulle comunità. Una narrazione capace di anticipare e prevenire le tempeste di discredito che fatti di cronaca, campagne politiche, esternazioni malevole di politici o influencer a vario titolo possono portare. Non per celare qualcosa che non è giusto nascondere (il principio del “chi sbaglia paga” deve valere naturalmente anche per il terzo settore), ma per non minare alla base la credibilità di un settore che, francamente, sui suoi meriti acquisiti sul campo non ha niente da invidiare a nessuno.
È naturale a questo punto comprendere come si inserisce la comunicazione sociale in tutte queste dinamiche: ne è insieme l’elemento strategico e lo strumento operativo. Parafrasando l’immenso Italo Calvino “la trasparenza è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane”. E la fetta di pane sono i prodotti comunicativi figli di un pensiero e di una strategia. Se quindi la trasparenza è un fine e non un mezzo o tantomeno un adempimento, la sua accessibilità non è una questione meramente tecnica. La legge può e deve fare il suo mestiere e per la legge la certezza della trasparenza può benissimo essere rappresentata da un formale atto di pubblicazione su un sito internet; ma il terzo settore può e deve fare il proprio, anzi andare oltre, e utilizzare gli strumenti che la legge e la prassi mettono a disposizione per costruire strategie di comunicazione e condivisione con i media e le comunità. Investire in condivisione con processi di semplificazione basati su data e storytelling (ma non solo…) è la strada per creare e coltivare quel piano solido di credibilità che da solo rischia di essere molle o scivoloso. Un “fetta di marmellata spezzettata e sbriciolata” non fa bene alla trasparenza. E farlo preoccupandosi di fare in modo che non solo le finestre siano aperte, ma lo siano anche le porte e che più attori possibili vengano a visitare le case del terzo settore. Perché è lì dentro che si costruisce la coesione sociale e il terzo settore deve avere più voglia e meno timore di dirlo e raccontarlo.
* Giulio Sensi è giornalista e comunicatore sociale. Fa parte dell'équipe scientifica del progetto Capacit'Azione, in particolare ha curato il modulo 7 su "Trasparenza, comunicazione sociale e qualità".